COMPRENDERE VS SPIEGARE
Scritto in collaborazione con Zanlorenzi Giorgia
Più di cento anni fa, nel 1913, venne pubblicata “Psicopatologia Generale” di Karl Jaspers, opera fondante per la psicopatologia come disciplina scientifica autonoma e consapevole dei propri metodi.
All’interno di quest’opera viene trattato il concetto più rilevante della psicopatologia Jaspersiana, il comprendere, messo in contrapposizione allo spiegare.
Cosa significa comprendere?
Il ruolo del comprendere si basa sull’idea di Jasper che non sia possibile conoscere tutto ciò che di rilevante vi è in psicopatologia. Egli infatti scrive “Mentre nelle scienze naturali si può rimanere nell’ambito delle relazioni causali, in psicologia la conoscenza trova il suo soddisfacimento anche nel cogliere una serie tutta diversa di relazioni [quelle comprensibili]”.
Nello psicopatologo, affinchè egli comprenda, deve essere presente un’immedesimazione nell’altro, ciò che oggi definiamo empatia.
Comprendere significa quindi andare ad analizzare la soggettività ed i motivi personali dei pazienti, aldilà dell’analisi delle singole cause obbiettive legate ai sintomi della malattia.
Cosa significa, invece, spiegare?
Questo concetto appare opposto e si contrappone a quello del comprendere, eppure esercita una eguale importanza nel percorso di diagnosi, dal momento che esso riguarda la capacità di riuscire a formulare leggi esatte ripetibili dagli sperimentatori.
Se il comprendere risulta essere un concetto legato alla relazione e alla soggettività, il spiegare sta nella metà fredda ed obbiettiva della semplice osservazione, descrizione e categorizzazione di un comportamento target.
Verso la comprensione della sofferenza psichica:
Jasper voleva comprendere le cause delle malattie mentali per poter spiegare la loro natura, esaminando l’esperienza soggettiva vissuta dal malato.
Egli, però, era ben consapevole della problematicità legata alla necessità di creare una nosologia caratterizzata da metodo e rigore scientifico, così da poter intervenire terapeuticamente in modo univoco.
Nella psicopatologia, infatti, l’utilizzo di un metodo rigoroso è essenziale, ma questo, secondo Jasper, non poteva e non può limitarsi al mero classificare e descrivere.
All’interno di un metodo rigoroso deve invece esserci una complice interazione tra Osservazione, Intuizione comprensiva, e Relazione con il paziente.
Evitando così un bieco riduzionismo.
Volendo Jasper esaminare l’esperienza soggettiva della malattia mentale, la relazione ed il malato sono messi in primo piano.
Studiare la soggettività nei disturbi mentali parte quindi dalla visione del malato come una persona a tutti gli effetti, con la quale è possibile instaurare un rapporto/relazione ed intraprendere un percorso di cura.
Una visione molto lontana da quella di inizio 900’ dove il malato era classificato come folle, alieno o demente, termini chiaramente deumanizzanti e distanzianti.È solo partendo dalle esperienze psichiche del malato, attraverso la relazione terapeutica, che il processo di diagnosi ed il lavoro dello psicopatologo possono realizzarsi; non partendo certo dalle nostre definizioni, esperienze e percezioni riguardanti il semplice comportamento del malato.
Nessun metodo da solo può bastare come unica spiegazione di fenomeni così complessi come la malattia mentale e la sofferenza psichica.
Secondo Jasper, infatti, non esiste una sola causa, ma molteplici motivi, esperienze, vissuti, il cui senso dev’essere compreso solo assieme al malato, a partire dallo “stare con”.
Qualsiasi diagnosi senza indagine della soggettività appare quindi sterile.
Jasper scrive: “Quando consideriamo la vita psichica abbiamo a disposizione due vie: o ci trasponiamo interiormente negli altri, ci immedesimiamo con essi, «comprendiamo», oppure consideriamo singoli elementi dei fenomeni nella loro connessione e nella loro successione in quanto dati”.
Punti critici e riflessioni:
All’epoca furono mosse diverse critiche a Jasper, sia da parte di psichiatri organicisti che da psicopatologi ad orientamento fenomenologico.
È chiaro come Jasper teorizzi una visione dell’analisi psicopatologica fondata sul concetto di empatia. Da un punto di vista critico l’empatia è un fenomeno tipicamente soggettivo, non obbiettabile, e quindi non studiabile a livello scientifico; inoltre, essendo quello di Jasper un metodo soggettivo, esso si sottrae in partenza dalla possibilità che le sue conclusioni possano essere validate su un piano obbiettivo e scientifico.
Un altro possibile problema da tenere in considerazione è quello della “giusta distanza”: fino a che punto ci si può mettere nei panni dell’altro?
Jasper risponde a questa domanda descrivendo la posizione dello psicopatologo come un attore/ascoltatore attento, che si immerge nell’altro in modo non giudicante mantenendo comunque obbiettività, senza farsi influenzare.
In quest’ottica impassibilità e commozione procedono unite e non si contrappongono, andando ad esercitare un’azione reciproca che porta alla reale conoscenza dei fenomeni psichici.
Successivo importante aspetto da analizzare è quello dell’incomprensibilità.
Davanti a qualcuno che disvela i propri pensieri deliranti, può accadere di urtare contro il vetro dell’incomprensibilità. Quante volte non riusciamo a metterci nei panni dell’altro? Quante volte qualcosa ci appare privo di logica, vago, o troppo confuso per potervisi immedesimare?
Eppure, ciò non significa rinunciare a darvi un significato. Anche se non possiamo presentificare in noi come ci si senta qualcuno in quello stato o ricostruire un nesso motivazionale, possiamo comunque impegnarci a dare un senso al vissuto dell’altro.
Infine, trovo necessario riflettere sulla variabilità dei confini del comprendere.
La comprensione dipende da numerose variabili, e ciò che la delimita è flessibile, per nulla fisso o statico.
Alcuni esempi di tali variabili sono:
1) il setting nel quale avviene il colloquio. C’è enorme differenza nel visitare un paziente nel proprio studio, con il tempo necessario, e vederlo d’urgenza al pronto soccorso in una stanza non idonea e con poco tempo;
2) la durata della relazione. Un fenomeno all’inizio incomprensibile può pian piano acquisire comprensibilità, man mano che il rapporto terapeutico procede;
3) le caratteristiche personali del paziente. Pazienti più capaci di insight possono descrivere in modo più preciso ciò che altri riportano in modo vago, aiutando così nella comprensione del fenomeno;
4) le caratteristiche personali dello psicopatologo, che può in generale essere più o meno empatico.
Il limite del comprendere non è statico e dato una volta per tutte, ma dinamico e in parte modificabile. Ciò implica la possibilità di potersi quindi impegnare a creare maggiore opportunità di comprensione, almeno in quelle variabili che sono apparentemente modificabili.
Conclusione:
Questo articolo ha l’obbiettivo di mettere in luce come il concetto di comprendere non sia superato o di puro interesse storico. È una lente da cui guardare i fenomeni psichici ancora utile e viva in coloro che si approcciano a chi soffre con sincero interesse ed empatia.
Sicuramente, però, il comprendere presenta numerose aporie tutt’oggi non superate che necessitano di essere affrontate in modo più rigoroso.
Il comprendere è, infondo, una comprensione psicologica, attraverso l’empatia, di cosa fa, pensa, prova l’altro. Dev’essere interpretato come un mezzo per cogliere e poter studiare ciò che avviene nell’altro, come lo stesso Jaspers si è impegnato a fare.
A ben guardare, però, va aggiunto che la comprensione non può concentrarsi sui fenomeni da studiare nell’altro senza considerare che essa ci dice qualcosa anche di chi li vuole comprendere.
Insomma, la comprensione non è né nell’oggetto da comprendere né nel soggetto che vuole comprenderlo, la comprensione è nella relazione, ed è proprio nella relazione tra psicopatologo e paziente che si deve fare affidamento per una visione più completa possibile di cosa sia la malattia mentale.