OSSERVARE ED OSSERVARSI: GLI STEREOTIPI DI GENERE IMPLICITI
Scritto in collaborazione con Zanlorenzi Giorgia
Oggi ci impegniamo per garantire ad ognuno le stesse opportunità lavorative, sociali ed economiche, al di là del sesso biologico di appartenenza. Negli stati costituzionali di diritto contemporanei è infatti esplicitamente vietato discriminare le persone sulla base del loro sesso/genere.
Vivo in una società in cui gli uomini non si sentono meno forti a chiedere aiuto, in cui le donne lavorano e sono emancipate. Insomma, la società in cui vivo ha superato certi limiti legati all’identità di genere e si esprime lasciando ad ognuno la libertà di essere e fare ciò che desidera anche se ciò appare distante dai ruoli di genere tradizionali.
Ma è davvero così?
In questo articolo analizzeremo le differenze che ancora oggi dividono gli uomini dalle donne. Parleremo della costante costruzione di stereotipi di genere che continua a limitare le scelte individuali e, cosa più grave di tutte, relegare il genere femminile in una posizione subalterna all’interno della società, producendo serie forme di discriminazione che evidenziano chiaramente una sistematica vulnerabilità di alcuni soggetti rispetto ad altri.
Se l’obiettivo è promuovere la piena emancipazione di ognuno di noi, attraverso l’effettiva eguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali, è necessario interrogarsi sui casi in cui ciò non avviene, evitando di contribuire al loro perpetuarsi, in ragione della tacita assunzione e riproposizione degli stereotipi di genere che li alimentano.
Cosa si intende con il termine: “vulnerabile”?
In un certo senso la vulnerabilità caratterizza ogni essere umano in quanto tale, perché dipende da fattori intrinsechi alla condizione umana come la fragilità del corpo e la dipendenza (materiale ed emozionale) dagli altri (Mackenzie et al., 2014a, 4-7).
A livello generale, però, alla nozione di vulnerabilità si connette un’esigenza di speciale protezione e tutela. Riguarda ineguaglianze di potere, di capacità e di bisogni che rendono alcune persone più vulnerabili rispetto ad altre, perché le espongono maggiormente al rischio di subire un danno e perché riducono le loro capacità di resilienza (Parolari, 2019).
Come spiega Parolari (2019), etichettare come vulnerabili intere categorie di soggetti può, però, condannare a forme di stigmatizzazione ed esclusione coloro che ne fanno parte. La stessa vulnerabilità può quindi divenire, paradossalmente, uno stereotipo “vulnerabilizzante”, ecco perché vanno attentamente analizzati, a livello oggettivo, le situazioni e gli ambiti in cui alcune categorie di soggetti vengono discriminate, senza rischiare di basarsi su mere intuizioni o immaginandole in una posizione più debole che toglie loro empowerment e talvolta dignità.
In poche parole, non ostante il costrutto di vulnerabilità possa essere applicato alla condizione umana generale, è necessario: “individuare e denunciare le dinamiche sociali e istituzionali di carattere strutturale che, discriminando ed escludendo sistematicamente alcune categorie di soggetti, incidono negativamente sulla loro possibilità di godere in modo pieno ed effettivo dei propri diritti fondamentali (di compiere le proprie scelte, di esprimere il proprio potenziale e di realizzare i propri obiettivi)” (Parolari, 2019, p. 95).
In relazione a quanto sopra descritto, il genere femminile, rispetto a quello maschile, rischia più spesso di trovarsi in questa specifica condizione di vulnerabilità, in ragione del modo in cui la società è organizzata.
Gli stereotipi di genere:
Il concetto di identità di genere rappresenta il senso di appartenenza di una persona ad un sesso/genere, che può o meno coincidere con il sesso biologico di appartenenza alla nascita.
Attorno al concetto di identità di genere ruota il sistema sociale, con una serie di pratiche che fanno riferimento ad un insieme di ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti.
Il genere risulta essere una “categoria critica” a cui sono annesse determinate percezioni e aspettative. Tali aspettative e percezioni, però, rappresentano spesso pericolosi stereotipi, ovvero sono semplificazioni infondate a livello scientifico che limitano o pregiudicano la libertà e le scelte individuali di un genere piuttosto che un altro. Quando riferiti ad aspetti discriminatori nelle dinamiche di potere, colpiscono particolarmente le donne, in modo sproporzionato rispetto agli uomini.
A livello descrittivo, gli stereotipi funzionano come generalizzazioni, così da poter attribuire una certa caratteristica ad una determinata categoria di soggetti (Schauer 2003). Ma, nella realtà, gli stereotipi funzionano come norme sociali, stabilendo come alcune persone all’interno di una specifica categoria debbano essere, apparire e agire, imponendo loro ruoli predeterminati.
Citando Parolari (2019), essi contribuiscono alla costruzione e al mantenimento di un ordine sociale caratterizzato da asimmetrie di potere, dove l’accesso a risorse materiali e simboliche non è eterogeneo, e si possono notare gerarchie tra soggetti dominanti e soggetti dominati.
Gli stereotipi di genere sono presupposti e riprodotti nel mondo del lavoro e dell’economia, in politica e nel diritto, nel sistema dei mass media, dell’arte e della cultura. Per questo, la loro analisi dev’essere sistematica, non limitandosi alla sola dimensione parentale come accaduto per lungo tempo, deve includere il mercato del lavoro, l’istruzione e le istituzioni politiche, superando definitivamente quel segregazionismo che collega e limita il genere alla dimensione privata e della famiglia.
Questa analisi è necessaria da parte di ogni membro della comunità in cui viviamo e non deve solo riguardare le categorie vulnerabili. Questo perché a livello superficiale sembra facile rilevare situazioni e ambienti in cui gli stereotipi di genere entrano in gioco e ci si aspetta che chi li subisce sia sempre in grado di accorgersene e, se possibile, intervenire a riguardo. Purtroppo, però, non è sempre così. Molto spesso tali stereotipi si manifestano in modo implicito e vengono per lo più assimilati passivamente ed inconsciamente dalle persone, portandole ad assumere ruoli e prendere decisioni che non avrebbero mai preso altrimenti.
Ciò che rende pericolosi gli stereotipi di genere non è solo la creazione di gerarchie sociali e dinamiche di dominio, ma anche la loro assunzione a livello profondo ed implicito, perché limita la libertà di scelta di ognuno, inconsapevolmente. Questo condiziona, a monte, la nostra percezione delle alternative possibili o desiderabili. Per esempio, la grandissima maggioranza delle ragazze e giovani donne tende a scegliere percorsi di studio di tipo umanistico o legati a funzioni di cura e a scartare invece indirizzi scientifici e tecnici, autoescludendosi dalla futura possibilità di svolgere determinate professioni.
L’esperienza psicologica degli individui non è solo il prodotto di processi intenzionali e controllati, ma riguarda quindi anche processi automatici; mentre i primi danno luogo a giudizi valutativi frutto di processi analitici, razionali, intenzionali ed espliciti, i secondi danno invece luogo a reazioni affettive nate da particolari associazioni automaticamente. Queste associazioni automatiche non sono necessariamente riconosciute a livello consapevole, eppure sono in grado di influenzare il comportamento dell’individuo.
Come può essere fermato questo ingranaggio? Come ci si può emancipare e abbattere i muri ed i limiti che creano gli stereotipi se questi sono implicitamente impiantanti nelle nostre menti?
Penso ciò sia possibile solo analizzando i primi ambienti in cui ci si inizia ad interfacciare con i ruoli di genere e si forma una profonda e condizionata idea di cosa e come un uomo e una donna debbano essere e comportarsi: la famiglia e la scuola.
Stereotipi di genere e ambiente famigliare:
Entrando in una cameretta, è probabile che nessuno di noi abbia difficoltà a capire se appartenga ad un bambino oppure ad una bambina. Può essere azzurra o rosa, piena di macchinine o bambole, con il poster di Dragon Ball oppure delle Winx. Tutte queste marcate differenze guidano le nostre inferenze e si basano su stereotipi condivisi, l’insieme di conoscenze ed informazioni che riguardano le caratteristiche salienti che contraddistinguono un gruppo sociale da un altro (Judd e Park, 1993).
In questo paragrafo indagheremo come le nostre conoscenze riguardo le caratteristiche, gli attributi, i ruoli e le attività che si immagina contraddistinguano gli uomini dalle donne si sviluppano in età evolutiva, analizzando il ruolo specifico di entrambi i genitori nel trasmettere queste informazioni ai propri figli. (Carraro et all., 2011).
Secondo le ricerche, gli stereotipi di genere compaiono prima dei tre anni di età; per esempio a 30 mesi si formano gli stereotipi di genere legati ai giocattoli, all’abbigliamento e ai lavori tipici maschili e femminili (Huston, 1983,1985; Ruble e Martin, 1998). A partire dai 4 anni e mezzo i bambini attribuiscono al genere maschile e femminile anche caratteristiche più astratte relative a specifici comportamenti e tratti di personalità, come la dolcezza e la gentilezza piuttosto che la forza e l’aggressività (Giles e Heyman, 2005).
Le conoscenze stereotipiche, poi, aumentano nel tempo a partire dai tre anni fino a toccare i massimi livelli intorno ai sette anni di età (Signorella et al., 1993).
Alcuni autori sostengono che i bambini, aldilà degli atteggiamenti e dei valori trasmessi in famiglia, diventerebbero comunque consapevoli degli stereotipi di genere tramite i mass media e le relazioni con i pari (Maccoby, 2002; Martin e Fabes, 2001). Tuttavia il ruolo rivestito dalla coppia genitoriale ha un ruolo essenziale. Ad esempio, i bambini le cui madri hanno atteggiamenti stereotipici più tradizionali utilizzano le etichette di genere prima degli altri bambini; il contrario avviene invece nelle famiglie in cui la divisione dei compiti è meno tradizionalista e più egalitaria (Fagot et al., 1992; Fagot e Leinbach, 1995).
Esiste quindi una forte relazione tra gli stereotipi dei genitori e quelli dei figli. È vero che i genitori potrebbero modificare intenzionalmente le proprie risposte esplicite in virtù di ciò che sanno essere più socialmente desiderabile, però, spesso non sono pienamente consapevoli dei loro atteggiamenti impliciti.
Gli stereotipi di genere sono infatti trasmessi in famiglia soprattutto attraverso il comportamento, gli stili narrativi, ed il modo in cui si parla di esperienze personali (Carraro et al., 2011). Per esempio, Cristofaro e Tamis-Lemonda (2008), hanno scoperto che quando i genitori parlano con le figlie femmine la conversazione verte sulle emozioni e l’aspetto fisico, mentre le comunicazioni con i maschi includono maggiormente azioni ed elementi concreti. I bambini, di conseguenza, tendono a descrivere soggetti maschili in termini maggiormente legati alle azioni e i soggetti femminili con elementi legati all’aspetto fisico.
Ciascun genitore, poi, ha un ruolo specifico nella trasmissione degli stereotipi di genere, ed in particolare sembra che i padri giochino un peso maggiore rispetto alle madri (Castelli et al., 2009). È stato dimostrato infatti che i genitori si comportano in modo diverso nei confronti dei figli maschi e delle figlie femmine. In particolare, sono soprattutto i padri a differenziare maggiormente il loro comportamento, mentre le madri tendono ad avere atteggiamenti e comportamenti abbastanza omogenei sia nelle famiglie tradizionali che non. Ciò che cambia in questi due tipi di famiglie sono effettivamente proprio i comportamenti dei padri.
I figli possono quindi acquisire consapevolezza delle differenze di genere tra l’essere maschio e femmina osservando il rapporto tra i propri genitori e, più nello specifico, il modo di rapportarsi e di comportarsi del padre (Carraro et. al, 2011).
Aldilà delle influenze a livello implicito che i genitori hanno sui figli, però, sarebbe interessante indagare e parlare anche della condivisione di determinate opinioni all’interno della famiglia, che porti ad influenze reciproche tra i vari membri.
Stereotipi di genere nella formazione:
Allo Stato e all’istituzione scolastica, è assegnato il compito di ridurre il deficit tra maschi e femmine creato da una scorretta interpretazione dei ruoli di genere operata dai genitori nella prima infanzia. Cercando di abolire ogni forma di discriminazione, assicurando pari opportunità di fronte alle materie di studio e alle posizioni sociali più elevate.
Questa posizione è assai diffusa, oggi, anche nel corpo insegnante. Con un’esaltazione del principio di uguaglianza, attraverso criteri e pratiche che privilegiano l’uniformità rispetto alle differenze di genere, rispettando i caratteri universalistici della scuola pubblica e delle scelte individuali (Colombo, 2003).
Inoltre, se un tempo l’ambiente scolastico e formativo era indiscutibilmente un ambiente maschile, dal 2000 si è assistito ad un sorpasso femmine: nei paesi ad economia avanzata si constata sia un aumento della partecipazione femminile dalla scuola secondaria ai corsi di alta qualificazione, sia un migliore rendimento scolastico delle allieve rispetto agli allievi.
Stando ai dati del consorzio universitario AlmaLaurea, relativi al 2019, le donne laureate sarebbero in maggioranza rispetto agli uomini (intorno al 60% del totale dei laureati) e le loro carriere universitarie brillerebbero di più, con una media di 101,1/110 rispetto a quella maschile del 98,6/110.
Eppure, di fronte all’inserimento professionale uomini e donne sperimentano un diverso rendimento dei titoli di studio acquisiti. In Italia, per esempio, il sesso di un individuo influenza direttamente le possibilità di occupazione ed i tempi di ricerca del lavoro sia per coloro che hanno il diploma, sia per coloro che hanno la laurea. Insomma, l’appartenenza di genere risulta essere un fattore ascritto che produce disuguaglianza nella struttura dell’accesso alle risorse, favorendo il successo maschile e sottovalutando sistematicamente le prestazioni femminili (Colombo, 2003).
Questo accade per svariati motivi, uno fra questi è sicuramente la bassa specializzazione riconosciuta ai percorsi di studio più “femminilizzati”, come quelli linguistico-letterali e socio-educativi, che da luogo ad un circolo vizioso di penalizzazione e deprezzamento di queste professioni sul piano sociale e culturale. Infatti le discipline STEM (corsi di laurea di ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico) sono le meno frequentate dal genere femminile, e garantirebbero un più alto tasso di occupazione, salari più alti e più concrete possibilità di avanzamento di carriera. Secondo i dati del MIUR del 2012, infatti, il numero di donne iscritte ai corsi di laurea di ambito scientifico e di ingegneria è cresciuto meno del 3% dal 2000 al 2010 e, tutt’oggi 2 laureati su 3 in fisica, 3 su 4 in ingegneria, e 4 su 5 in informatica sono uomini.
Le cause di questa segregazione di genere non sono da ricercare in problemi di competenza, ma in stereotipi e pregiudizi di genere che creano nelle giovani donne convinzioni e pensieri limitanti. La ricerca ha infatti ampiamente dimostrato che non esistono differenze nelle abilità di ragionamento matematico tra uomini e donne (Hyde, 2005) e che non esiste alcuna predisposizione di genere innata per le materie scientifiche (Halpern et al., 2007; Spelke, 2005).
Già in tenerissima età, infatti, le bambine ricevono messaggi molto chiari che le spingono verso precise discipline ed interessi ritenuti dalla società più “indicati” per la loro “natura”. Stiamo parlando di discipline legate alla cura dell’altro (socio-assistenziali), alla comunicazione e alla relazione (lingue, letteratura ed educazione). L’allontanamento delle ragazze dalle carriere STEM è legato anche ad una mancanza di fiducia e autostima da parte di loro stesse, come risultato di quel processo ideologico e culturale nel quale vivono e che assimilano inconsapevolmente. Infatti, indipendentemente dagli effettivi risultati scolastici, le ragazze si considerano meno brave in matematica e scienze rispetto ai coetanei di genere maschile, mostrano meno auto efficacia ed interesse e manifestano livelli più alti di ansia quando devono affrontare compiti in queste materie (Else-Quest et al., 2010). È interessante notare come, secondo Tommasetto, Galdi e Cadinu (2012), fino gli 8/9 anni di età i bambini non manifestano consapevolezza degli stereotipi legati alla differenti abilità nelle materie scolastiche; a partire dai nove anni, però, inizia ad emergere la consapevolezza che altre persone, gli adulti di riferimento in particolare, possono considerare le femmine più capaci nelle materie linguistiche ed i maschi più bravi nelle materie scientifiche.
Gli studi nell’ambito della Teoria della Minaccia dello Stereotipo (Steele e Aronson, 1995), per esempio, hanno dimostrato che basta semplicemente evocare lo stereotipo (Spencer et al., 1999) e/o rendere saliente l’identità di genere (Shih et al., 1999) perché le prestazioni femminili in test standardizzati di matematica subiscano un notevole peggioramento.
In ogni caso, anche all’interno delle professioni e dei percorsi educativi a maggior partecipazione femminile, le cariche ai vertici appartengono in percentuale maggiore al genere maschile. Per esempio, la facoltà di psicologia sembra essere una delle facoltà con più alta partecipazione femminile, eppure, i presidenti degli albi regionali di psicologia sono in percentuale maggiore di sesso maschile, lo stesso vale per il numero di rettori delle stesse facoltà.
Ciò accade perché sotto al velo dell’uguaglianza e della parità formale, si nascondono pratiche dualistiche discriminanti basate sul genere. Il primo dato su cui soffermarsi è il contenuto dei libri di testo e dei materiali didattici, ancora pieni di immagini stereotipiche e pregiudizi circa i ruoli sessuali. Oltre a ciò si aggiunge il contesto pubblico/lavorativo, dove le donne sono sottorappresentate o addirittura assenti (Per esempio nelle carriere politiche, scientifiche e nelle attività produttive o legate all’imprenditoria).
Ci tengo molto a soffermare l’attenzione sull’analisi degli stereotipi di genere presenti nel materiale didattico di bambini/e della scuola primaria. Questi stereotipi sono in grado di influenzare fortemente le convinzioni e le credenze dei bambini/e rispetto ai ruoli di genere, hanno una grande forza sulle loro menti, proprio come lo possono avere i comportamenti dei genitori nei confronti di queste tematiche. Ciò accade perché i libri ed il materiale didattico assumono la forza di imperativi indiscutibili, perché vengono presentati all’interno di contesti autorevoli che costituiscono spesso il primo approccio a una visione strutturata del mondo e, inoltre, devono essere studiati. I libri di scuola, agl’occhi di un bambino, non si possono sbagliare, esattamente come non sbagliano mamma e papà.
Secondo l’analisi di Scierri (2017), tutt’oggi nei sussidiari di lettura per la scuola primaria per ogni 10 protagoniste femminili vengono rappresentati 15 protagonisti maschili. Se lo spazio come attori principali nelle storie non è paritario viene negata l’opportunità che le bambine possano sentirsi rappresentate, riconoscersi ed essere riconosciute quanto i bambini. Inoltre, l’avventura e l’azione è riservata al genere maschile, mentre quello femminile è relegato ad una dimensione di quotidiana staticità. Nelle storie, gli uomini si muovono molto in spazi aperti mentre le donne restano confinate in spazi chiusi. Altre asimmetrie sono state rilevate: al genere maschile è riconosciuta maggior identità professionale, e quando tale identità è riconosciuta anche ai personaggi femminili, questa si limita ai classici mestieri stereotipati attribuiti alle donne (primo fra tutti, la maestra); alle donne, però, è riconosciuta una maggior identità genitoriale rispetto ai personaggi maschili. Si conferma anche lo stereotipo per cui le donne si contraddistinguono per la loro dimensione estetica: sono loro assegnati attributi fisici in misura significativamente maggiore che agli uomini. Le donne esistono ancora “innanzitutto per e attraverso lo sguardo degli altri” (Bourdieu, 1998, 80). In modo molto sottile, ma potente, nei libri di lettura per bambine e bambini viene preannunciato il ruolo di “oggetto simbolico” che rivestirà la donna in altri campi mediatici (Lipperini 2007; Zanardo 2010).
Tutto ciò fa riflettere, soprattutto se si considera che già la Convenzione di Istanbul del 2011 invitava gli stati membri a intraprendere azioni sul piano dell’educazione, rivedendo e modificando programmi e materiali didattici verso una maggiore parità tra i sessi, e ruoli di genere non stereotipati. Lo stesso era stato richiesto dalla Risoluzione del Parlamento Europeo, la quale aveva sottolineato come gli stereotipi di genere tendano a perpetuare lo status quo delle disuguaglianze economiche e sociali e a limitare lo sviluppo professionale e personale delle donne. La Risoluzione si era soffermata su come, fin dalla più tenera età, sia possibile trasmettere alle bambine e ai bambini la nozione di uguaglianza grazie ad un’educazione basata sul riconoscimento della parità e sulla decostruzione degli stereotipi di genere.
Attraverso:
1) predisporre specifici corsi che possano contrastare gli stereotipi di genere e promuovere la parità tra uomini e donne e il rispetto dell’altro;
2) formare adeguatamente gli insegnanti su questi argomenti;
3) valutare i programmi di studio e il contenuto dei libri di testo per le scuole.
Nonostante queste disposizioni, abbiamo constatato come brani “tradizionali” nei testi scolastici continuano ad essere proposti.
Effettivamente molte case editrici hanno l’abitudine di rieditare per decenni lo stesso libro senza alcuna modifica sostanziale. Questa spiegazione, non può essere considerata una giustificazione valida.
Forse le modifiche richieste non sono state rispettate per inconsapevolezza? Una mancata formazione adeguata sul tema, per gli addetti ai lavori? Una profonda ignoranza su come debbano apparire prodotti liberi da stereotipi?
Tuttavia, è difficile non prendere in considerazione le pressioni di associazioni conservatrici verso quelle che, da queste, vengono definite “iniziative gender”. Questo può in parte fornire un’ulteriore motivazione al mancato intervento delle grandi case editrici sui propri sussidiari al fine di garantire una rappresentazione di bambine e bambini libere da stereotipi.
Come scrive Scierri (2017), è probabile che, finché non ci sarà una esplicita regolamentazione, lo stato dell’arte dell’editoria scolastica tenderà a mantenersi tale e quale.
Una revisione, attenta e consapevole, dei brani di lettura da inserire nei libri di testo è da ritenersi un’emergenza educativa. Allo Stato e all’istituzione scolastica, infatti, è assegnato il compito di ridurre il deficit tra maschi e femmine creato da una scorretta interpretazione dei ruoli di genere operata dai genitori nella prima infanzia.
Tutto ciò in considerazione del ruolo che la scuola ed i brani di testo che propone riveste nel fornire a bambine e bambini modelli cui identificarsi, contribuendo a costruire l’immaginario relativo alle caratteristiche e ai ruoli di genere all’interno della società, arricchendola, ed eliminando gerarchie sociali e di dominio legati al genere sessuale.
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