È difficile rimanere fiduciosi e ottimisti ai tempi del Coronavirus. Il Covid 19 sta affliggendo molti malati in Italia e nel mondo, sta costringendo i medici a turni estenuanti, sta danneggiando l’economia, sta cambiando le vite di tutti i cittadini costringendoli a casa. È difficile trovare un lato positivo in tutto ciò, è difficile non farsi prendere dalla paura per la propria salute e per i propri cari, è difficile non preoccuparsi per il bilancio economico, è difficile non abbattersi per l’impossibilità di vedere amici e parenti.
I disastri conseguenti al Coronavirus sono tanti, troppi, è vero. Tuttavia, anche in questo frangente così provante è possibile, anzi auspicabile, cercare di cambiare prospettiva e guardare con occhi diversi ciò che ci sta capitando. Per aiutarvi a farlo e spingervi a cogliere ciò che di bello questa epidemia ha portato alla luce, voglio raccontarvi una storia.
Si tratta di una leggenda indù, la quale racconta di un ricco re, che aveva un consigliere molto saggio al suo fianco. Quest’ultimo era solito accogliere tutti gli eventi con la medesima frase: “Ciò che Dio vuole è per il meglio”. Un giorno, il re andò in guerra e fu colpito alla mano: la ferita era tanto grave che l’arto dovette essere amputato. Al sovrano disperato per il dolore e la perdita subita, il consigliere disse: “Ciò che Dio vuole è per il meglio”. Il re allora si infuriò, scambiando quella frase per insolenza e insensibilità di fronte alla sua disgrazia. “Come puoi pronunciare queste parole dopo che mi è stata tagliata una mano?” inveì collerico contro l’uomo. Tanta era la sua ira che decise di destituirlo dalla sua carica e metterlo in prigione, dove avrebbe potuto scontare la sua punizione. Nonostante l’ingiusta e pesante condanna, il saggio consigliere affermò ancora una volta: “Ciò che Dio vuole è per il meglio”. Il tempo passò e il re partecipò ad una battuta di caccia. Mentre si trovava nel bosco, però, fu assalito da una tribù di selvaggi, che lo catturò e lo fece prigioniero, con l’intento di sacrificarlo alla dea Kalì. Quando giunse il momento del rituale, il sacerdote si accorse tuttavia che il re era senza una mano e lo proclamò indegno, a causa di quella sua storpiatura, di essere donato alla divinità. Il sovrano fu allora liberato e lasciato tornare al suo regno, dove subito corse a scagionare il consigliere dicendogli: “Oh, saggio uomo, perdonami per averti ingiustamente punito! Allora non avevo capito le tue parole, ma erano veritiere: se non fosse stato per la mia ferita, sarei stato sacrificato da quei selvaggi che mi hanno rapito!”. Il consigliere gli sorrise, rassicurandolo: “Non scusarti, mio sovrano. La tua condanna mi ha salvato: se non fossi stato in prigione, ti avrei sicuramente accompagnato alla battuta di caccia e sarei stato catturato insieme a te. A quel punto, i selvaggi avrebbero sacrificato me alla dea Kalì, vista la mia buona salute.” Da quel giorno, il re tenne sempre in grande considerazione il parere del sapiente consigliere, arrivando anche lui a credere che “Ciò che Dio vuole è per il meglio”.
Questo breve racconto insegna che non tutto il male vien per nuocere: talvolta anche le disgrazie più tragiche e le circostanze più sfortunate possono celare in sé dei risvolti buoni e utili. Anche per chi non crede in Dio e nella presenza di un volere superiore, non sono poche le riflessioni che si possono fare riguardo alla situazione attuale e a ciò che di positivo possiamo ricavare dal Coronavirus.
Cito a questo proposito la bellissima riflessione dello psicologo Morelli: “Credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte. Il momento che stiamo vivendo, pieno di anomalie e paradossi, fa pensare… In una fase in cui il cambiamento climatico causato dai disastri ambientali è arrivato a livelli preoccupanti, la Cina in primis e tanti paesi a seguire, sono costretti al blocco; l’economia collassa, ma l’inquinamento scende in maniera considerevole. L’aria migliora; si usa la mascherina, ma si respira…
In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class.
In una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, senza sabati nè domeniche, senza più rossi del calendario, da un momento all’altro, arriva lo stop. Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro. Sappiamo ancora cosa farcene?
In una fase in cui la crescita dei propri figli è, per forza di cose, delegata spesso a figure ed istituzioni altre, il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia.
In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel “non-spazio” del virtuale, del social network, dandoci l’illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto. Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato?
In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunità, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro.
Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci.
Perché col cosmo e le sue leggi, evidentemente, siamo in debito spinto.
Ce lo sta spiegando il virus, a caro prezzo.”
Alla luce di questa preziosa riflessione, invito i lettori a ripensare alle difficoltà che stiamo vivendo in chiave diversa, come un’occasione per crescere, per trovare solidarietà e unione anche nella lontananza, combattendo insieme per allontanare il virus.
Concludo infine proponendovi la bellissima poesia di Mariangela Gualtieri, come ulteriore spunto sul significato e sul senso che si può attribuire alle dure e provanti circostanze contemporanee:
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Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.
Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.
E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere –
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.
Adesso siamo a casa.
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.
È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.
Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.
Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.
Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.
A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.
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